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E se smettessimo di parlare di diversità?

2022-02-12 16:19

Danny Casprini

Diversity, inclusion, uniqueness,

E se smettessimo di parlare di diversità?

Come possiamo esprimere al meglio la complessità umana ed apprezzare tutte quelle differenze che ci rendono esseri unici, esseri diversi eppure uguali?

 

Ogni parola ha un suo significato ed evoca immagini che per ognuno di noi acquisiscono un senso diverso. Con diversità si intende la "condizione di chi è considerato da altri, o considera se stesso, estraneo rispetto a una presunta normalità". Appunto, ma chi definisce questa normalità? Secondo quali criteri? E, soprattutto, perché è così importante definire la propria alterità e non la propria identità? 

 

Con questo non voglio dire che non serva parlare di tematiche quali la diversità e l’inclusione. La diversità, infatti, ha indubbiamente una forza di rottura con la cultura “dominante”, ma potrebbe comportare il rischio di ricondurre l’individuo all’interno di categorie predefinite riducendo così la complessità che caratterizza l’essere umano e che contribuisce a definire il modo nel quale tutti noi interagiamo con gli altri. Il grande rischio del post-modernismo è proprio quello dell’estrema categorizzazione, del bisogno di appartenere ad un gruppo e di farsi promotori di precisi interessi. Cosa sacrosanta, ma appartenere ad un gruppo è veramente sintomo di diversità? O solamente l’ennesimo tentativo del conformismo di inquadrare tutti quanti tramite criteri prestabiliti? 

 

In vari progetti nei quali ho partecipato, e tuttora partecipo, quale facilitatore mi trovo spesso a proporre un esercizio di “categorizzazione” ai partecipanti. Chiedo loro di pensare a 10 gruppi sociali con i quali reputano di identificarsi: per alcuni è un lavoro semplicissimo, per altri la richiesta più complessa che possa mai arrivare (più volte mi è stato chiesto “perché solo 10?”; altre volte li sento dire “io 10 gruppi non li riesco a trovare”). C’è chi subito si identifica con lo status che ha all’interno della famiglia (figlio/a, fratello, sorella), chi invece parte col definire la propria identità culturale, etnica, religiosa o nazionale, oppure chi definisce il proprio credo politico, chi poi si definisce tramite categorie quali il sesso, il genere, l’identità di genere, l’orientamento sessuale, e chi parla della propria disabilità o abilità. Fin qua il gioco è facile e immagino che molti di voi avranno provato a trovare i 10 gruppi nei quali si identificano. Solitamente a questo punto chiedo ai ragazzi e alle ragazze che ho di fronte di rinunciare a tre gruppi, poi ad altri due, poi di privilegiarne uno solo tra i cinque rimasti e vedo la reazione nei loro volti (e immagino la difficoltà che stiate provando nel fare quest’esercizio). Rinunciare a pezzi di sé è forse il lavoro più difficile al quale possiamo essere chiamati. 

 

Ma che senso ha quest’esercizio? Far capire la complessità della persona e far prendere coscienza del fatto che ognuno di noi è il frutto della combinazione di tutte le identità che ci definiscono, delle esperienze che ci portano a crescere e che ci rendono unici. In ogni momento della giornata non siamo mai una cosa sola, ma siamo costantemente il risultato dell’interazione tra le diverse identità che danno vita alla nostra personalità. Il risultato identitario potrebbe essere ben definito e “scolpito” per alcuni di noi, mentre per altri questa composizione varia nel tempo o a seconda del contesto nel quale si trovano. Così credo che l’unico modo di essere fedeli a se stessi sia abbracciare la propria complessità ed apprezzare se stessi per quello che si è. È innegabile che ci possano essere parti di noi che si identifichino con quella cultura maggioritaria di cui tanto vogliamo disfarci, così come è innegabile che una parte (grande o piccola) di noi sia in aperta rottura con la cultura nella quale viviamo, ma la lotta e la resistenza non ci portano a migliorare né come individui né come comunità. La presa di coscienza e l’accettazione di tutte le nostre componenti identitarie è di gran lunga la soluzione migliore, ma anche la più faticosa perché potrebbe richiedere un bilanciamento tra componenti (ed interessi) apparentemente inconciliabili. 

 

In tal senso, lo scorso 3 febbraio, Drusilla Foer, dal palco dell’Ariston ci ha invitati e invitate ad apprezzare e celebrare la propria e le altrui “unicità”. Unicità altro non è che un modo di guardare alla diversità. Parlare di unicità ci permette di comprendere le complessità che ci caratterizzano e di accettare tutte le parti di noi stessi. Parlare di unicità ci aiuta a superare i conflitti interiori che l’appartenenza a diverse categorie identitarie comporta, parlare di unicità è il modo di riconoscere noi stessi e gli altri complessi e completi. Perché sì, ognuno di noi è un sistema unico, un sistema complesso; un sistema che però interagisce con gli altri. La coscienza delle unicità è quindi il mezzo per evitare la “guerra” a se stessi e agli altri. 

 

Essere coscienti delle unicità richiede uno sforzo cognitivo, richiede un cambiamento nel modo in cui approcciamo l’alterità. In tal senso, l’intersezionalità è maestra proprio perché ci aiuta a comprendere la complessità degli individui. L’intersezionalità è educazione, rispetto e presa di coscienza (individuale e collettiva) e permette di evitare giudizi e pregiudizi su di sé e sugli altri. Così, dovremmo considerare l’intersezionalità come un mezzo, una lente, un filtro da utilizzare nelle progettualità –  nelle scuole, nei centri giovanili, nei luoghi di lavoro, nelle università, nei centri sportivi, e così via – volte ad andare oltre le categorizzazioni, che tutti ci autoimponiamo o che la società sembra imporci, e di costruire una società più aperta e più inclusiva nella quale si valorizza la persona in quanto tale. Apprezzare le proprie e le altrui unicità, quali manifestazioni della complessità umana, e progettare le nostre attività in modo intersezionale è quanto di migliore possiamo fare per riempire di significato nuovo la diversità e riconoscerci tutti, al contempo uguali e diversi, ma pur sempre appartenenti ad un solo genere, quello umano.