Lavoro ed emozioni, un binomio particolare e per tanti, sono sicura, inaspettato.
Quando pensiamo alla parola “lavoro” possono venirci in mente diversi aspetti riferiti al nostro vissuto: possiamo pensare ad un’attività definita da mansioni e compiti specifici, oppure alle competenze e alle abilità richieste in base al ruolo che si ricopre. Tante sono le idee e le associazioni possibili, ma non è certo scontato pensare al mondo delle emozioni come direttamente collegato a quello del lavoro. Ebbene, l’attenzione agli aspetti emotivi in questo ambito sta aumentando sempre più, ed inizia ad apparire chiaro come le competenze tecniche e intellettive non siano più sufficienti da sole per eccellere sul lavoro. In effetti, nel mondo del lavoro odierno molta enfasi viene posta sul lavoro in gruppo, sulla flessibilità e sull’orientamento al cliente, aspetti in cui è essenziale la relazione e quindi la capacità di rapportarsi con l’altro in maniera adeguata e coerente.
Già negli anni ‘70 David McClelland, intervistando chi si distingueva per bravura all’interno del Dipartimento di Stato degli USA e confrontando le risposte con quelle dei colleghi mediocri, dimostrò che le differenze più significative a livello di prestazione erano appannaggio del riconoscimento delle emozioni, e non del quoziente intellettivo e/o delle conoscenze specialistiche. Nel 1995 Daniel Goleman riprendeva questo concetto e lo collegava non solo al riconoscimento, ma a tutta la gamma di competenze dell’area delle emozioni, facendo riferimento ad una particolare tipologia di intelligenza, ovvero l’Intelligenza Emotiva. Questa riguarda la capacità di riconoscere e controllare le emozioni proprie e altrui, di essere empatici, capaci di motivare se stessi e di perseguire uno scopo.
Come Goleman stesso spiega nel libro “Lavorare con l’intelligenza emotiva”, questa tipologia di competenze è essenziale per lavorare bene e in armonia con i propri collaboratori e superiori; inoltre sono i datori di lavoro stessi che, nel cercare nuovi assunti, richiedono sempre più capacità afferenti dall’intelligenza emotiva, tra le quali la capacità di ascolto, di comunicazione efficace, di dominio delle proprie emozioni e la capacità nel lavoro di gruppo. Non è soltanto al dipendente che viene chiesto uno sviluppo di queste abilità; anche chi deve guidare l’operato di un gruppo di lavoro deve avere un buon livello di intelligenza emotiva, proprio per il suo ruolo dirigenziale. Il buon leader deve avere autoconsapevolezza, consapevolezza sociale, buona gestione di sé e dei rapporti con gli altri, affinché il lavoro del gruppo risulti produttivo ed armonioso grazie alla capacità di ascolto e gestione del gruppo. Riportando le parole di Goleman “se manca l’intelligenza emotiva, la formazione più prestigiosa, la mente più incisiva e analitica e tutte le migliori idee del mondo non basteranno mai a fare di un uomo un grande leader” (“Leadership emotiva”, 2011).
Tutte queste capacità che riguardano l’intelligenza emotiva entrano a far parte di quello che viene definito il capitale psicologico (PsyCap). A differenza del capitale intellettuale, che riguarda le conoscenze specifiche e le esperienze sul campo, quello psicologico ha per oggetto caratteristiche personali che sono determinate proprio dai livelli di competenza emotiva del lavoratore. Come ci illustra Guido Sarchielli (2017) il capitale psicologico deriva dall’autoefficacia, dalla speranza, dall’ottimismo e dalla resilienza dell’individuo; è perciò evidente che lo PsyCap sia indispensabile per portare avanti obiettivi con perseveranza e far fronte alle difficoltà e ai cambiamenti in maniera consapevole ed efficace. Grazie ad un’intelligenza emotiva sviluppata avremo un capitale psicologico ben strutturato, che porterà al benessere e alla soddisfazione dei lavoratori, nonché ad un aumento di prestazioni e produttività che investe tutto il gruppo di lavoro.
In definitiva, possiamo pensare che un buon livello di intelligenza emotiva e quindi di consapevolezza di sé e della relazione con l’altro, possa bastare per ottenere buoni risultati lavorativi? Oppure che le aziende prendano realmente in considerazione soltanto i tratti che compongono il capitale psicologico per assumere personale? Assolutamente no. Le conoscenze specifiche e le capacità cognitive rimangono un punto essenziale nel mondo del lavoro, nonché la capacità di apprendimento ed il lifelong learning, processo intenzionale e fondamentale per l’acquisizione di nuove conoscenze e competenze nell’ottica di un aggiornamento continuo. Non dobbiamo mettere da parte nessuna di queste caratteristiche, bensì incrementare ognuno degli aspetti citati in parallelo con le competenze emotive, che abbiamo capito essere la base per un clima lavorativo positivo e per un operato efficiente ed efficace, soprattutto se portato avanti in gruppo. Inoltre, a differenza del QI (quoziente intellettivo) che va incontro a minimi cambiamenti, l’intelligenza emotiva è appresa e continua a svilupparsi durante tutto il ciclo di vita. Le persone possono accrescere continuamente le loro abilità nel riconoscimento delle emozioni, nei livelli di empatia e diventare sempre più capaci nelle relazioni sociali. Citando nuovamente Goleman (2011) “i benefici che derivano da un’intelligenza emotiva armoniosamente sviluppata, sia per il singolo che per l’organizzazione che si avvale del suo lavoro, ripagano di gran lunga gli sforzi”.