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Cultura sportiva cercasi: l’inesorabile declino dello sport italiano

2021-01-18 07:12

Danny Casprini

educazione, Sport, riforma dello sport,

Cultura sportiva cercasi: l’inesorabile declino dello sport italiano

Una riflessione sullo stato di salute e le opportunità di rilancio dello sport italiano alla luce della riforma del settore

Lo sport in questo periodo è al centro della scena politica e di attualità non tanto per le imprese dei nostri atleti e delle nostre atlete quanto per le misure volte a limitare la diffusione del COVID-19 in luoghi quali palestre e piscine che ha spinto a innumerevoli chiusure e restrizioni. Di sport si discute molto, ma senza tenere in considerazione le potenzialità del settore e le problematiche da affrontare, così si propongono riforme il cui unico nodo di discussione politica è la gestione delle risorse destinate alle attività sportive. Da atleta e da istruttore spesso mi sono chiesto come in Italia siamo arrivati a screditare così tanto il settore sportivo destinandolo al declino. La risposta è tutt’altro che semplice e implica una lunga analisi del contesto socio-culturale italiano, ma tenterò di dare il mio punto di vista su alcuni sviluppi recenti.

 

Non è certo questa la sede per dilungarmi su una polemica sulle chiusure degli impianti sportivi e sulle conseguenze che esse hanno per associazioni e collaboratori. Tuttavia, vorrei far notare che i mesi di chiusura stanno drenando il settore di linfa vitale: stanno cioè togliendo la possibilità a una generazione di bambini e bambine, di adolescenti promettenti di assaporare una carriera sportiva o semplicemente di divertirsi con i compagni e le compagne di squadra. Questa perdita non potrà mai essere ripagata da nessun ristoro e rischiamo di pagarne le conseguenze prima ancora di accorgercene. Quelli che agli occhi di tanti possono sembrare pochi mesi di chiusura, per uno sportivo sono sufficienti a vanificare gli sforzi di una stagione, di un quadriennio di preparazione, di una vita.

 

Potete immaginare il mio stupore nell’apprendere le chiusure di piscine e palestre previste nel DPCM del 24 ottobre 2020 e annunciate dal Presidente del Consiglio dei Ministri, Giuseppe Conte, in conferenza stampa. Misure che colpiscono pesantemente società, collaboratori, atleti ed atlete professionisti/e, ma anche e soprattutto il cosiddetto “vivaio”, cioè i giovani e giovanissimi che si avvicinano al mondo dello sport agonistico. In un modo o nell’altro tali misure hanno colpito tutti i soggetti che orbitano intorno a piscine, palestre e altri centri sportivi, ma a pagare il prezzo più alto saranno, ancora una volta, i ragazzi e le ragazze che già hanno dovuto rinunciare alla scuola, almeno in senso fisico.

 

Allora vi chiederete cosa c’entra questa parte con la mia domanda di partenza. Bene questo è solo un esempio di un problema più grande: la mancanza di cultura sportiva in Italia. Il modo in cui è stato trattato lo sport dall’inizio della pandemia è solo la punta dell’iceberg di quel modus operandi comune a moltissimi governi susseguitisi dagli anni 80 ad oggi, tutti uniti nel glorificare gli atleti e le atlete vincenti e tutti altrettanto uniti nel non far niente per migliorare il settore sportivo e permettere che di suddetti atleti se ne tirino fuori molti altri. Così arriviamo al governo giallo-rosso e al suo ministro per le politiche giovanili e lo sport, Vincenzo Spadafora, che fin dall’inizio del suo mandato promette una riforma radicale del settore sportivo e che, puntualmente, disattende le aspettative.

 

O meglio, la riforma cerca di sciogliere il nodo cruciale dei rapporti di collaborazione sportiva creando figure professionali ad hoc e imponendo l’obbligo alle società e associazioni sportive di versare i contributi pensionistici ai propri lavoratori, equiparando di fatto il trattamento per i collaboratori sportivi a quello dei lavoratori dipendenti. Questa sarebbe una cosa ottima se il settore sportivo si avvalesse soltanto di collaboratori a tempo pieno, tuttavia vorrei ricordare che al momento esistono molti volontari e collaboratori discontinui o part-time che animano il mondo sportivo ricoprendo il ruolo di allenatore o di istruttore, in parallelo ad una diversa carriera professionale. Purtroppo la riforma non è molto chiara circa il trattamento di quest’ultima categoria di collaboratori e neanche le argomentazioni addotte dal Ministro in conferenza stampa sono esaustive sull’argomento. Nella stessa conferenza stampa, il Ministro non si è fatto sfuggire l’occasione di ribadire più volte che grazie alla riforma si riescono a creare figure professionali e a premiare le qualifiche e la formazione fatta anche tramite l’istituzione della figura di istruttore qualificato per i soggetti in possesso di diploma ISEF o laurea in Scienze Motorie (quindi chiunque sia in possesso di brevetti federali ma non abbia fatto uno dei due percorsi di formazione citati non è qualificato).

 

Da istruttore, e membro della categoria dei collaboratori discontinui, credo che la differenza la faccia la conoscenza del settore oltre al possesso di qualifiche specifiche, che ad oggi sono già istituite tramite percorsi di formazione presso tutte le federazioni nazionali e i loro comitati locali. A questo punto, per assicurarsi di avere dei professionisti del settore, sarebbe bastato rendere obbligatori i brevetti federali per poter accedere alle posizioni di istruttori o di allenatori, premiando il tempo speso in formazione specifica settoriale e non solo il percorso di studio universitario. Con questo non voglio dire che siano superflue o sbagliate le tutele previste per i collaboratori sportivi, ma il settore è fatto di figure molto diverse ed è difficile ricondurre tutti i lavoratori ad un'unica fattispecie. Che poi diciamocelo, l’obbligo per le società sportive di pagare i contributi INPS per i lavoratori deriva dalla profonda avversione che in Italia si ha per il lavoro autonomo, perché basterebbe rendere appetibile l’apertura di una partita IVA per i collaboratori sportivi per risolvere il problema della contribuzione.

 

Inoltre, la riforma cerca di introdurre una maggiore equità nello sport promuovendo il professionismo femminile e l’inclusione delle persone, equiparando le squadre paralimpiche a quelle olimpiche. Due obiettivi lodevoli, ma, a mio avviso, irraggiungibili con le misure proposte. A tal proposito vorrei ricordare che molte delle strutture esistenti sono scarsamente accessibili per persone con disabilità e che prima ancora di istituire un fondo per gli atleti paralimpici sarebbe opportuno lavorare con i gestori degli impianti per garantire una maggiore accessibilità alle strutture, rendendo quindi possibile anche per le persone con disabilità la partecipazione nello sport a qualsivoglia livello. L’inclusione e l’accesso al professionismo non sono solo questioni economiche, ma anche e soprattutto di cultura e di civiltà. E cosa potrebbe mai aiutarci a facilitare l’inclusione sociale e le pari opportunità, se non proprio lo sport e la sua presenza nelle scuole?

 

Non vorrei peccare di presunzione, ma davvero fatico a capire come si possa parlare di riforma del settore sportivo quando la legge non fa riferimento all’accesso allo sport da parte di migliaia di giovani. Per molti bambini e bambine la scuola è il solo posto in cui è possibile un incontro con lo sport, perché in molte zone d’Italia, si pensi specialmente al sud e alle isole, non esistono impianti sportivi se non le piccole palestre delle scuole. Inoltre, (sorpresa, sorpresa) le quote associative dei club sportivi sono care e inaccessibili per molte famiglie, ma non perché si voglia rendere lo sport elitario, piuttosto perché le società sportive non hanno altre voci di entrata a fronte di moltissime uscite.  E allora, quale modo migliore di assicurare a tutti pari opportunità se non creando delle squadre sportive scolastiche, magari tramite il coinvolgimento di associazioni locali? E perché non proseguire anche all’interno dell’università creando squadre studentesche sul modello anglo-americano e offrendo borse di studio per gli atleti e le atlete con grande potenziale di crescita? 

 

Tuttavia, ancora oggi, si stenta a riconoscere all’educazione motoria pari valore e dignità delle altre materie di insegnamento. Una riforma coerente dovrebbe prendere in considerazione anche questo problema tramite un piano di lavoro congiunto tra il Ministero dello Sport e quello dell’Istruzione per costruire un percorso condiviso per la formazione degli insegnanti di educazione motoria puntando ad una totale equiparazione di quest’ultimi con gli altri insegnanti del medesimo grado di istruzione. L’educazione motoria nelle scuole dovrebbe così diventare un “laboratorio” per i bambini e le bambine per sperimentare con diversi sport in modo da sviluppare la propria intelligenza fisica (o motoria) e coltivare possibili talenti sportivi. Le scuole diventerebbero in questo modo una “fucina” di atleti e atlete che potranno avvalersi di istruttori e allenatori qualificati provenienti da associazioni sportive locali che dovranno necessariamente essere coinvolte per la crescita specifica degli atleti e delle atlete. Questo sistema, se riprodotto a tutti i livelli di insegnamento dalla scuola elementare fino all’università, porterebbe non solo ad una valorizzazione dello sport, ma promuoverebbe anche un maggiore accesso al professionismo, a parità di condizioni, senza dover porre molti giovani davanti alla scelta tra studio e sport, creando un sistema alternativo a quello delle squadre sportive militari (che comunque continuerebbero ad esistere). 

 

Questo chiaramente richiederebbe uno sforzo congiunto di almeno due ministri (tre nel nostro caso), ma in un Paese dove ogni ministero è un’isola e nel quale ogni problema si riduce ad una lotta di ideologia, questa riforma è l’unica cosa che il governo è riuscito ad incassare, dopo la rovinosa sconfitta subita da parte del CONI, il quale fin dall’annuncio della riforma ha ritenuto che la parte riguardante la governance del settore sportivo fosse contraria ai requisiti di indipendenza richiesti per tutti i comitati nazionali da parte della carta olimpica e del comitato olimpico internazionale. A seguito del dibattito politico sulla questione deriva che il CONI non solo manterrà la propria indipendenza finanziaria e gestionale dei fondi per lo sport, ma verranno meno anche i limiti al numero di mandati dei propri dirigenti, così come previsti dal testo originario della riforma. Almeno così abbiamo scongiurato la possibilità dell’esclusione della bandiera italiana dalle olimpiadi di Tokyo, la prima olimpiade rimandata nella storia, e viene confermata l’organizzazione italiana dei giochi olimpici invernali 2026.

 

Tuttavia, il disinteresse per lo sport, a mio avviso,  non è una prerogativa del governo, bensì un sentimento diffuso nella popolazione e tra le famiglie. Tante, troppe volte, da allenatore e istruttore, ho sentito di ragazzi e ragazze privati dello sport per aver preso qualche brutto voto a scuola: perché sì, alla fine, lo sport è una distrazione. E quante di queste punizioni finiscono bene? In tutta coscienza pochissime e anzi, in molti casi, ho visto peggiorare nettamente le prestazioni scolastiche una volta che ragazzi e ragazze sono stati scoraggiati dal fare sport dai propri genitori. Perché chi fa sport sa accettare il fallimento e sa rimboccarsi le maniche per migliorare: davanti ad un’insufficienza non si cerca una scusa, ma si guarda a come far meglio la prossima volta e lo sport è maestro in questo. Quello che si fa in palestra, in piscina o sul campo si riflette poi nella scuola e nella rendita degli studenti ed è qui che sta un valore, spesso negato, dello sport.

 

Inoltre, chi di voi pratica sport, o ha figli che lo praticano, sa bene che lo sport non è solo medaglie, trofei, gare e partite: è, prima di tutto, passione, disciplina e senso di responsabilità. Lo sport è il veicolo che ci insegna a stare con gli altri, ad accettare tutti perché con lo sport si diventa una squadra e in squadra nessuno è solo, nessuno è escluso, tutti siamo pari. In squadra si impara a confrontarsi con gli altri e si sviluppano capacità cognitive e relazionali spesso sopite e/o non allenate. Chiunque abbia mai praticato uno sport, avrà realizzato che nei centri sportivi si assiste ad un dialogo intergenerazionale continuo, con istruttori e allievi intenti a scambiarsi punti di vista ed esperienze in modo costruttivo e con grande attenzione all’ascolto reciproco. Così l’allenatore (o l’istruttore) diventa, per molti ragazzi e molte ragazze, una delle prime figure adulte di riferimento che li accompagnerà nelle diverse fasi di sviluppo, come persone prima ancora che come atleti e atlete.

 

Quando pensiamo allo sport pensiamo soprattutto alle perdite che hanno subito e che dovranno subire i ragazzi e le ragazze. Così viene da chiedersi, come può questa riforma aiutare a risolvere i problemi legati all’accesso e alla prosecuzione dello sport? Avere professionisti equiparati a lavoratori dipendenti assicurerà quella professionalità tanto agognata? Quali saranno le reali conseguenze delle chiusure di tutti gli impianti sportivi? In forma più o meno ottimale avremo una buona rappresentanza italiana alle olimpiadi di Tokyo, ma come ci prepareremo alle prossime? Come faremo in modo che i tanti giovani promettenti abbiamo la loro chance di indossare un giorno la divisa della nazionale?  

 

Mi perdoneranno i lettori per i toni 'avvelenati', ma credo che senza un cambiamento di mentalità sarà estremamente difficile far ripartire il mondo sportivo, garantire pari opportunità di riuscita ai nostri giovani e valorizzare la forza lavoro del settore. Perché lo sport in fondo è un sintomo di salubrità della nazione, le nostre squadre olimpiche sono un biglietto da visita per il mondo, il settore non è in crisi perché mancano figure professionali al suo interno o perché il CONI ha una sua indipendenza, ma perché nello sport nessuno ha mai investito con razionalità, screditando ancora di più l’ormai quasi assente cultura sportiva. Lo sport è di tutti e per tutti, lo sport è un diritto, così come riconosciuto, tra gli altri, dal Trattato sull’Unione Europea e dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del Fanciullo, che ne riconoscono la dimensione ricreativa, educativa e culturale e ne promuovono l’accessibilità. Lo sport è quella rete di salvataggio che serve ai nostri ragazzi e alle nostre ragazze, è il mezzo più potente per contrastare la dispersione scolastica e molti altri problemi che affliggono sempre di più gli adolescenti, ma soprattutto è il mezzo più semplice per apprendere le capacità relazionali, il rispetto delle diversità e i valori dell’inclusione. Finché questo pensiero non sarà mainstream sarà difficile ipotizzare una riforma strutturale del sistema sportivo.