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Primo Levi, un poeta del '900

2022-01-27 11:24

Anida Hilviu

Primo Levi , Poesia , Einaudi , Ad ora incerta, 27 gennaio, Giorno della Memoria , Lager ,

Primo Levi, un poeta del '900

“Uomo sono. Anch’io, ad intervalli, «ad ora incerta», ho ceduto alla spinta: a quanto pare, è inscritta nel nostro patrimonio genetico".

Di Anida Hilviu 
 
“Uomo sono. Anch’io, ad intervalli, «ad ora incerta», ho ceduto alla spinta: a quanto pare, è inscritta nel nostro patrimonio genetico. In alcuni momenti, la poesia mi è sembrata più idonea della prosa per trasmettere un’idea o un’immagine.”

 

(Ad ora incerta, Prefazione)

 

Prima ancora di vivere la tragica esperienza nel Lager e di scrivere la sua opera più conosciuta, Se questo è un uomo, Primo Levi aveva composto versi: un “impegno” poetico, che durerà quasi quarant’anni, che incominciò con la poesia Crescenzago (febbraio 1943) fino ad accompagnarlo nei suoi ultimi anni di vita.

 

Ad ora incerta, la raccolta di poesie di Levi, nasce dall’impulso di Primo Levi di scrivere poesia, un impulso irrazionale controllato dal bisogno dell’autore di raccontare temi a lui cari, come la sofferenza interiore. Queste sue angosce sono espresse attraverso i sentimenti e le immagini che solo la poesia sa creare. Malgrado questo, Ad ora incerta rimane purtroppo ancora oggi un’opera isolata di Levi (G. Loogorio, 2002).

 

 

Quando vennero pubblicati i versi generarono una grande curiosità da parte dei critici, probabilmente per l’autorità internazionale che Levi si era già guadagnato come prosatore e testimone con Se questo è un uomo e La tregua. Infatti gli articoli usciti dopo la pubblicazione dell’opera, sui più importanti giornali italiani, non si interessarono di Primo Levi come autore di poesie, ma più al Levi testimone del Lager e si limitavano a informare, in maniera generale, il lettore sull’opera appena uscita.

 

 

“Ecco, è finito: non si tocca più/ Quanto mi pesa la penna in mano!/ Era così leggera poco prima,/ Viva come l’argento vivo:/ Non avevo che da seguirla,/ Lei mi guidava la mano/ Come un veggente che guidi un cieco,/ Come una dama che ti guidi a danza.”

(Ad ora incerta, L’opera)

 

Le poesie di Primo Levi uscirono per la prima volta nel 1970 in un volumetto anonimo, senza titolo, con la copertina in cartoncino: questa composizione conteneva solo 23 testi, battuti con la macchina da scrivere e di cui furono stampate solo trecento copie.  Nell’aprile del 1975 Levi decise di affidare le sue poesie a un piccolo, ma prestigioso, editore milanese, Vanni Scheiwiller, e furono così pubblicate nella raccolta intitolata L’osteria di Brema. Questa silloge comprende 27 testi e il suo titolo riprende una poesia dell’autore tedesco, molto caro a Levi, Heinrich Heine.

 

 

Nell’ottobre del 1984 L’osteria di Brema fu inglobata in una seconda raccolta, pubblicata da Garzanti, Ad ora incerta che contiene 53 poesie, scritte dal febbraio 1943 al giugno 1984; altri 18 testi, scritti dal 1984 al 1987, furono poi pubblicati con il titolo redazionale di Altre poesie nelle edizioni successive, ma anche nel volume di Einaudi Opere. In questa seconda raccolta si trovano oltre a una settantina di liriche, anche 8 traduzioni di poesie tratte dal Buch der Lieder di Heine, una di Rudyard Kipling e un’anonima ballata forse del Seicento  (E. Zinato, 2011).

 

 

Si può notare, dall’ordine cronologico, che una prima intensa produzione coincide con il rientro in patria di Levi e il tema centrale è ovviamente quello del Lager; poi, dopo aver subito una stasi nella produzione poetica tra il 1949 al 1965, Levi dà una svolta decisiva ai suoi versi, incentrandoli su riflessioni riguardanti le vicende umane e il cosmo.

 

Come si è già detto in precedenza, l’opera riscosse un discreto successo più per la fama come testimone di Levi che per la sua bravura come poeta, ma le sue abilità come scrittore furono ricompensate con importanti riconoscimenti letterari: Ad ora incerta ricevette a Pietrasanta il 35° Premio Nazionale di poesia di Giosuè Carducci. La raccolta fu considerata dai giudici “un’opera di alta qualità sia a livello etico sia letterario” e fu un premio inaspettato per lo stesso autore che riferisce: “nessun premio mi ha fatto più piacere di questo, perché proprio non me lo aspettavo. Si vede che l’adulterio editoriale che ho commesso mi ha portato fortuna”. Sempre nel 1985 il libro fu premiato in provincia di Pistoia con il  Premio Abetone.

 

Sicuramente un aspetto importante è costituito infine dalla scelta del titolo dell’opera. In Ad ora incerta è chiaro il riferimento a un verso tratto dal testo poetico dell’autore inglese Samuel Taylor Coleridge La ballata del vecchio marinaio del 1798.

 

 Since then, at an uncertain hour,

 That agony returns:

 And till my ghastly tale is told

 This heart within me burns.

 

Il poemetto dell’autore inglese ebbe una forte influenza su Levi. Pochi mesi dopo il suo ritorno da Auschwitz infatti, l’autore si sentiva proprio come il vecchio marinaio di Coleridge: il peso delle cose vissute durante la prigionia era insopportabile e l’unico modo per liberarsi da queste sofferenze era esprimere la sua agonia attraverso i versi, come Levi spiega nel passo di “Cromo”: 


Mi pareva che mi sarei purificato raccontandolo, e mi sentivo simile al Vecchio Marinaio di Coleridge, che abbranca in strada i convitati che vanno alla festa per infliggere loro la sua storia di malefizi. Scrivevo poesie concise e sanguinose, raccontavo con vertigine, a voce e per iscritto, tanto che a poco a poco ne nacque poi un libro.
 

 

“A un certo punto del percorso viene naturale fare i conti, tutti: quanto si è ricevuto e quanto dato; quanto è entrato, quanto è uscito e quanto resta. È un bisogno, e soddisfarlo può essere piacevole, ma provarlo è un segnale. Vuol dire che potranno avvenire ancora alcune cose, cadere rami e spuntarne di nuovi, ma le radici si sono consolidate.”

(La ricerca della radici)

 

Ad aprire il libro Ad ora incerta si trova una breve, ma chiara ed efficace, prefazione all’opera di Levi  scritta nel 1984: il poeta spiega i motivi che lo hanno spinto a scrivere poesia e il suo rapporto con essa.

 

In tutte le civiltà, anche in quella ancora senza scrittura molti, illustri e oscuri, provano il bisogno di esprimersi in versi, e vi soggiacciono: secernano quindi materia poetica indirizzata a se stessi, al loro prossimo o all’universo, robusta o esangue, eterna o effimera. La poesia è nata certamente prima della prosa. Chi non ha mai scritto versi?

 

La prefazione inizia con l’affermazione di Levi che molti uomini si sono trovati nella sua stessa situazione: hanno sentito “il bisogno di esprimersi in versi”. L’autore sembra quasi volersi giustificare per aver ceduto a un difetto connaturato alla specie umana. C’è poi il chiaro riferimento al fatto che Levi, prima ancora di scrivere uno dei suoi capolavori, Se questo è un uomo, scrisse poesia, com’è documentato dalla poesia Crescenzago, scritta prima dell’esperienza nel Lager.

 

In passato Levi affermò di aver scritto due racconti prima del 1943 (poi capitoli in Il sistema periodico “Piombo” e “Mercurio”), ma durante un’intervista confessò di aver mentito, perché in realtà i due racconti furono scritti successivamente. Questa vicenda è un ulteriore prova del fatto che Levi scrisse effettivamente prima in versi e solo successivamente in prosa.

 

In questo preambolo Primo Levi usa molte parole tecniche legate al campo chimico e medico, come per esempio “secernano” o  “soggiacciono”: con questo ultimo termine, Levi afferma che è la poesia che parla, perché è lei stessa che vuole parlare, spinge e obbliga il poeta a scrivere versi. La domanda che pone Levi al lettore “Chi non ha mai scritto versi?” ricorda l’affermazione che fa nel capitolo Oro, dove racconta che lui e alcuni suoi amici di Torino, trasferitosi poi a Milano, scrivevano molte poesie ed era per loro un’azione normalissima:

 

Se non sbaglio, tutti scrivevamo poesie, salvo Ettore, che diceva che per un ingegnere non era dignitoso. Scrivere poesie tristi e crepuscolari, e neppure tanto belle, mentre il mondo era in fiamme, non ci sembrava né strano né vergognoso: ci proclamavamo nemici del fascismo, ma in effetti il fascismo aveva operato su di noi, come su quasi tutti gli italiani, estraniandoci e facendoci diventare superficiali, passivi e cinici.

 

Nel seguito della prefazione di Ad ora incerta, Levi fa un chiaro riferimento al titolo della sua opera, successivamente ripreso nel primo verso della poesia Il superstite, e al suo far poesia “occasionalmente”:

 

Uomo sono. Anch’io, ad intervalli, «ad ora incerta», ho ceduto alla spinta: a quanto pare, è inscritta nel nostro patrimonio genetico. In alcuni momenti, la poesia mi è sembrata più idonea della prosa per trasmettere un’idea o un’immagine.

 

Essendo anche egli un uomo, ha ceduto alla spinta della poesia di scrivere versi, ma questo impulso non si manifesta in momenti precisi, ma “ad ora incerta”, come quell’agonia di cui parla Coleridge che si manifesta occasionalmente e che non scompare fino a quando non viene raccontata la sua storia.

L’autore aggiunge anche che la poesia è qualcosa di innato, che non possiamo scindere da noi, perché si trova nel nostro DNA. Levi ha ritenuto più idonea la poesia rispetto alla prosa, perché essa riesce ad esprimere meglio ciò che l’autore sente dentro.

 

Non so dire perché, e non me ne sono mai preoccupato: conosco male le teorie della poetica, leggo poca poesia altrui, non credo alla sacertà dell’arte, e neppure credo che questi miei versi siano eccellenti. 

 

Levi confessa di non essersi mai interessato del perché la poesia agisca così su di lui e afferma che in effetti non conosce molto bene ciò che riguarda la poetica. In un’intervista del 1979 a Giuseppe Grassano, l’autore aveva paragonato questo impulso di scrivere poesia a:


Una curiosa infezione, come una malattia esantematica, che dà un rash. […] un fenomeno che non capisco, che non conosco, che non so teorizzare, di cui rifiuto il meccanismo. Non fa parte del mio mondo. Il mio mondo è quello di pensare ad una cosa, di svilupparla in modo quasi… da montatore ecco, di costruirla poco per volta. Quest’altro modo di produrre a folgorazioni mi stupisce.

 

Nell’affermare di leggere poca poesia altrui, Levi fa riferimento soprattutto ai versi delle opere di autori a lui contemporanei. Quando, invece, afferma di non credere alla sacertà dell’arte, l’autore non fa altro che esplicitare la sua visione laica: la poesia non doveva avere nessun valore di sacralità e doveva essere vissuta senza trasporti religiosi, perché doveva funzionare solo come strumento di contatto con il lettore.

 

Levi non crede nella sua abilità di scrivere versi, né tantomeno alla loro bellezza. Quest’affermazione trova d’accordo il critico Franco Fortini che conferma il pensiero leviano: “sono d’accordo con Levi: questi versi non sono eccezionali”. Nello stesso tempo, però, aggiunge che i componimenti lirici dell’autore torinese non debbano essere visti in una visione ampia e generale, ma che ogni poesia debba essere presa singolarmente e analizzata secondo il contesto in cui è stata scritta, bisogna perciò coglierne “la folgorazione” (F. Fortini, 2004).

 

Giovanni Raboni, critico che si è occupato notevolmente di Primo Levi, mostra subito un forte interesse per le sue poesie perché, a suo parere, si differenziano da quelle degli autori a lui contemporanei e dimostrano una forte conoscenza degli autori  del passato:

 

Ora per entrare senza altri indugi in quest’ultimo, a me sembra che la scrittura poetica di Levi abbia, sin dall’inizio (ed è in ogni senso un inizio, giacché i primi versi precedono Se questo è un uomo) lo stesso acume morale, la stessa forza di memoria, ammonimento e pietà, che rendono così sostanziosa, così giusta, così naturalmente memorabile la sua prosa.

 

La prefazione si conclude con la questione computista. Levi ammette di aver scritto più o meno una poesia all’anno e nel calcolo dell’autore non c’è nessuna approssimazione. Controllando la cronologia delle poesie che vanno dal 1943 al 1984, e includendo anche le poesie apparse sulla Stampa (come Alla musa, Casa Galvani e il Decatleta) il calcolo corrisponde al vero.

 

Posso solo assicurare l’eventuale lettore che in rari istinti (in media, non più di una volta all’anno) singoli stimoli hanno assunto naturaliter una certa forma, che la mia metà razionale continua a considerare innaturale.

 

Infine Primo Levi non si considera un veggente, perché lui riconosce la parte innaturale della poesia che lo spinge a scrivere dei versi: l’uomo si trova in un territorio in cui può essere portato a fare qualcosa, non per sua volontà, ma guidato da una fede laica. La poesia di Levi è però controllata, dominata dalla sua parte razionale e non concede nulla all’aurea poetica. I suoi versi perciò sono privi di aloni. Nello stesso tempo, però, l’autore riconosce che Ad ora incerta non sia priva di ambiguità perché lui stesso viveva in una situazione ambigua a causa della sua “spaccatura” tra chimico e scrittore. Per Levi questa sua “metà razionale”, che considera irrazionale, è come il sogno che pensa mediante immagini, miti e favole: la poesia è per eccellenza immagini.

 

"Anch’io ho sangue di profeta, come ogni figlio d’Israele, e ogni tanto gioco  a fare il profeta."

(Se non ora, quando?)

 

Nella raccolta Ad ora incerta ci viene presentata la figura di  Levi nella sua integralità e complessità. L’opera è oggetto di studio da parte di critici particolarmente attenti: uno di questi è  Giovanni Tesio, che rintraccia l’uso continuo di temi, parole e cadenze nell’intera produzione di Levi, dal 1946 agli anni Ottanta. (Tesio, 1991).

I temi più ricorrenti sono il persistere dell’offesa, che non può mai oltrepassare l’oblio; la memoria del Lager come minaccia incombente; l’idea di un tempo che ci è sempre misurato o comunque insufficiente; i pericoli della solitudine; la metafora della navigazione nella vita e nel mondo; il senso di guerra che non finisce mai; l’immagine del cerchio, che evoca il volo dei predatori. Nonostante la produzione leviana si sviluppi nell’arco di un quarantennio, è l’ostinata presenza di questi temi a renderla compatta e unita (E. Ferrero, 1997).

 

Se prestiamo attenzione alla distribuzione delle poesie, ci accorgiamo che è presente un’intensa attività poetica coincidente, come si è già detto in precedenza, col periodo immediatamente successivo al rientro di Levi in Italia da Auschwitz, prevalentemente legata al tema del Lager. 

Negli anni 1949-1965 si nota una stasi della scrittura poetica; dagli anni ’70, dopo il suo pensionamento dal mestiere di chimico, vi è il periodo di più intensa produzione. Levi scrive le restanti 39 poesie di Ad ora incerta, comprese le traduzioni. Se analizziamo anche i temi del suo canzoniere, scopriamo una cesura, sempre a partire dagli anni Settanta, quando alla dominante memoria testimoniale avviata con le prime poesie, si passa a una riflessione sulle vicende dell’umanità e quelle del cosmo. 

Doppiamente indicativo questo cambiamento di tema, anche per quanto riguarda il piano intertestuale, come ha notato il poeta e critico letterario Giovanni Raboni: 

 

Un lavoro attento, tenace, orgoglioso, sulle specificità della pronuncia, sulle specifiche risorse dell’intonazione e della metrica, un lavoro condotto al di fuori, certo, delle linee di ricerca tipiche e portanti della poesia italiana contemporanea, ma non nell’ignoranza di esse. Un lavoro sottilmente, suggestivamente anacronistico, sorretto da una robusta e affettuosa conoscenza di alcuni grandi autori del passato.

 

L’intertestualità si evince, come detto in precedenza, soprattutto nella poesia Il superstite, dove il poeta prende in prestito un verso dalle settima parte dal poemetto The Rime of the Ancient Mariner, scritto da Samuel Taylor Coleridge. Questo lo precisa  Levi stesso nel racconto Cromo del Sistema periodico

 

Perché gli uomini avevano edificato Auschwitz, ed Auschwitz aveva inghiottito milioni di esseri umani, e molti miei cari amici, ed una donna che mi stava nel  cuore. Mi pareva che mi sarei purificato raccontando, e mi sentivo simile al Vecchio Marinaio di Coleridge, che abbranca in strada i convitati che vanno alla festa per infliggere loro la sua storia di malefizi. Scrivevo poesie concise e sanguinose, raccontavo con vertigine, a voce e per iscritto, tanto che a poco a poco ne nacque poi un libro .            

 

Il tema del Lager si trova alle origini della poesia leviana, e ritorna “ad ora incerta” più volte nel corso della sua vita: “ Since then, at an uncertain hour, /Dopo di allora, ad ora incerta, /Quella pena ritorna,  /E se non trova chi lo ascolti / Gli brucia in petto il cuore.”

 

Anche ne La bambina di Pompei si deduce il tema dell’intertestualità. Il poeta parla di tre bambine distanti nel tempo, ma accumunate da un’unica e infelice sorte: la prima, vissuta nel 79 d.C., è morta e seppellita dalla lava del Vesuvio: “Poiché l'angoscia di ciascuno è la nostra /Ancora riviviamo la tua, fanciulla scarna”; la seconda, “la fanciulla d’Olanda”, è  Anna Frank, morta nel Lager di Bergen-Belsen, nel febbraio  del 1945:  “Della fanciulla d'Olanda murata fra quattro mura/
Che pure scrisse la sua giovinezza senza domani:”; la terza, infine è “una scolara di Hiroshima” al tempo dell’esplosione della bomba atomica, nell’agosto 1945: "Nulla rimane della scolara di Hiroshima, /Ombra confitta nel muro dalla luce di mille soli,”. La sorte delle tre bambine dimostra quanto siano indifferenti gli dèi ai destini umani già sottoposti a sciagure naturali: “Agonia senza fine, terribile testimonianza /Di quanto importi agli dèi l'orgoglioso nostro seme.”. Levi termina la poesia con un ammonimento ai potenti di deporre per sempre le armi: “ Potenti della terra padroni di nuovi veleni, /Tristi custodi segreti del tuono definitivo, /Ci bastano d'assai le afflizioni donate dal cielo. /Prima di premere il dito, fermatevi e considerate.” 

Questo componimento sembra  un chiaro riferimento alla scena della morte di Cecilia nei Promessi sposi. Anche le guerre, i campi di sterminio e gli eventi naturali sono come la peste: procurano vittime innocenti. 

 

Di Levi si sa: una giovinezza partigiana, e la vicenda che porta i figli di contadini, di rabbini e di commercianti alla lotta partigiana è riassunta nel canto che Levi mette in bocca a Gadale in Se non ora, quando?, e poi lo pubblica, tra le prime poesie, di Ad ora incerta.

 

 C’è, in questa tesissima sintesi, il passato lontano: “ Ci riconoscete? Siamo le pecore del ghetto, /Tosate per mille anni, rassegnate all’offesa. /Siamo i sarti, i copisti ed i cantori/Appassiti nell’ombra della Croce.”; c’è l’esperienza recente dell’olocausto, espressa in parte con parole di Celan, in una poesia che Levi prediligeva (Scaviamo una tomba nell’aria) : “I  nostri fratelli sono saliti al cielo /Per i camini di Sobibór e di Treblinka, /Si sono scavati una tomba nell'aria” (C. Segre, 1997).

 

Tesio pone l’accento su quanto sia importante e persistente la presenza di Dante, che si configura come modello, anche per l’ostinato uso della prosopopea, figura retorica che consiste nel rappresentare come persone parlanti, cose inanimate o astratte (G Tesio, 1985).

Il poeta, nella sua poesia, dà voce a uomini (Secondo il modello di Spoon River),  piante,  animali e cose. (F. Fortini, 2004). Che c’è di strano? Il cielo non mi piaceva, / Così ho scelto di vivere al buio.”;  “È il nostro modo di gridare che /Morrò domani. Mi hai capito adesso?”; “Così vorresti, a metà partita, /A partita finita, /Rivedere le regole del gioco?”.

 

Nel gruppo di testi in cui è ceduta la voce a personaggi umani, invece, il medesimo, cieco scenario cosmico di rigenerazione e distruzione viene talvolta sperimentato “eroicamente” da pensatori e scienziati del passato, come sfida conoscitiva, o come scacco e dissolvimento. In Plinio parla il grande naturalista dell’antichità, Plinio il Vecchio, che muore sotto la cenere del Vesuvio nel 79 d.C.: “Quando da secoli gli atomi di questo mio vecchio corpo /Turbineranno sciolti nei vortici dell’universo /O rivivranno in un’aquila, in una fanciulla, in un fiore.”; e in Autobiografia prende la parola Empedocle: in entrambi i casi è di scena la sublimazione materialistica della morte individuale, come epica dello scioglimento degli atomi del proprio corpo entro i vortici dell’universo, con possibilità di riformare, con le medesime molecole di idrogeno e carbonio, altri corpi viventi: “Fui cicala ubriaca, tarantola astuta e orrenda, /E salamandra e scorpione ed unicorno ed aspide.”

 

Un’altra figura retorica, che il critico rileva, è la costante presenza dell’apostrofe, figura retorica che consiste nel rivolgere improvvisamente e vivamente il discorso a persone anche non presenti: (G.Tesio, 1985) “Tu creatura deserta, uomo cerchiato di morte.” più avanti “O figlio della morte, non ti auguriamo la morte.”

 

L’apostrofe è usata, in questo caso, per dare maggiore enfasi alla poesia. I componimenti sono tutti indirizzati a un collettivo voi, che può anche includere tutti gli uomini: “Voi che vivete sicuri”. Sono presenti molti imperativi, usati spesso da Levi come forma di ammonimento: “Meditate che questo è stato:/ Vi comando queste parole. /Scolpitele  nel vostro cuore”; “Non trattenetemi, amici, lasciatemi salpare.”;  “Abbi pazienza, mia donna/affaticata, /Abbi pazienza per le cose del mondo”.

 

Le poesie si articolano sul succedersi di parallelismi e anafore. Questo procedimento caratterizza le prime poesie (Buna: “ Compagno stanco… Compagno grigio… Compagno vuoto…; Hai dentro… Hai rotto; Uomo deserto... Uomo spento…; che non hai più pianto… che non hai più male… che non hai più spavento…” ; Il canto  del corvo: “ Per portare…. Per trovare… Per portare… Per portarti…. Ho superato… Ho forato…. Ho voluto… Che ti colga… Che ti corrompa… Che ti sieda…”;  Shemà: “ Voi che vivete… Voi che trovate…. Considerate se…. Considerate se…; Che non conosce…. Che lotta… Che muore… Senza capelli… Senza più forza…”) (C. Segre, 2009).

 

La capacità di Levi di inserire all’interno dei suoi versi “un poliglottismo massimale” (la definizione di Gianfranco Contini) fatto di termini medi, parole ed espressioni di provenienza  dialettale e  straniera è presente soprattutto nelle prime poesie. Levi usa un linguaggio che ha una sua ricchezza espressiva e a tratti espressionista; è soprattutto capace di costruire un linguaggio colto. Il poliglottismo, in questo caso, può essere considerato minimale. I materiali compositivi risalgono principalmente a un ambito, quello dell’orrore, rappresentato da parole o locuzioni del linguaggio del Lager (dal nome Buna, un settore di Auschwitz, a Wstawać  “alzarsi”, nel polacco degli aguzzini; da nebbich “sciocco” e oy gevelt in jiddish, a Nacchtwache “guardia notturna”). Detto questo, non possiamo considerarlo autore espressionista, poiché, l’ossessione della chiarezza governa il suo esercizio poetico.

 

I registri usati da Levi per la sua poesia non sono solo drammatici: pathos, ritorno e testimonianza, timore, ma è compreso anche il registro dell’ironia. Da un lato c’è l’infezione cosmica, rappresentata dal Lager che fa parte della testimonianza, dall’altra c’è l’ironia che preserva dalla denuncia emotiva e riesce a contenere l’esplosività.

 

Nella poesia leviana il ruolo dell’ironia è fondamentale perché il suo senso parodico serve al poeta come controcanto, in modo  che non sia tutto falso ed eccessivo. I suoi versi non appartengono e non collaborano con la poesia a lui contemporanea; ma questo è un rilievo storico. Rileggendo le sue poesie, non si direbbe per nulla che Levi sia stato spinto da un fatto necessario, ma marginale, o da una sorta di violon d’Ingres, come egli stesso afferma, e nemmeno che la poesia non sia contemporanea al resto della poesia italiana. Sembra che la scrittura poetica di Levi abbia sin dall’inizio lo stesso solenne acume morale; la stessa forza di memoria, pietà e la stessa chiarezza che rendono così sostanziosa, così giusta, così memorabile la sua prosa.