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La Letteratura è utile al necessario? Un'analisi su Primo Levi

2021-02-15 01:24

Anida Hilviu

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La Letteratura è utile al necessario? Un'analisi su Primo Levi

In questo anno così difficile e complesso, dove la scienza è al centro del dibattito mediatico, ci si domanda se la letteratura sia utile al necessario.

Di Anida Hilviu

 

“Le cose viste e sofferte mi bruciavano dentro. Mi sentivo più vicino ai morti che ai vivi, e colpevole di essere uomo, perché gli uomini avevano edificato Auschwitz, ed Auschwitz aveva ingoiato milioni di esseri umani, e molti miei amici, ed una donna che mi stava nel cuore. Mi pareva che mi sarei purificato raccontando…”

(Il sistema periodico)

 

 

In questo anno così difficile e complesso, dove la scienza è al centro del dibattito mediatico, mi sono spesso domandata se la letteratura sia utile al necessario. Vorrei partire col dire che la letteratura è un processo e un dialogo aperto. Il lettore non è qualcuno di esterno, ma una sorta di sdoppiamento dell’autore, un personaggio che collabora, si informa, approfondisce, insomma l’interprete ideale. Non più solo il destinatario del messaggio, ma una parte attiva di esso, che coopera con l’autore, creando così un impegno reciproco in cui tutti collaborano. Scrivere non è un’attività svolta per i critici o per se stessi, ma può diventare una sorta di lettera a un amico, o un diario di se stessi per se stessi. In quest’ottica, pur facendo sempre attenzione al risultare chiara, è la letteratura che parla, perché è lei stessa che vuole parlare, spinge e obbliga lo scrittore a scrivere. Un caso emblematico nel suo genere di letteratura fatta per necessità è Primo Levi. 

 

Nella sua raccolta poetica “Ad ora incerta” la domanda che pone Levi al lettore “Chi non ha mai scritto versi?” ricorda l’affermazione che fa nel capitolo Oro, dove racconta che lui e alcuni suoi amici di Torino, trasferitisi poi a Milano, scrivevano molte poesie ed era per loro un’azione normalissima:

 

“Se non sbaglio, tutti scrivevamo poesie, salvo Ettore, che diceva che per un ingegnere non era dignitoso. Scrivere poesie tristi e crepuscolari, e neppure tanto belle, mentre il mondo era in fiamme, non ci sembrava né strano né vergognoso: ci proclamavamo nemici del fascismo, ma in effetti il fascismo aveva operato su di noi, come su quasi tutti gli italiani, estraniandoci e facendoci diventare superficiali, passivi e cinici”.

Levi, Primo, “Oro” in Il sistema periodico, Torino 1975,  pp. 131-132

 

Nel seguito della prefazione di Ad ora incerta, Levi fa un chiaro riferimento al titolo della sua opera, successivamente ripreso nel primo verso della poesia Il superstite, e al suo far poesia “occasionalmente”:

 

"Uomo sono. Anch’io, ad intervalli, «ad ora incerta», ho ceduto alla spinta: a quanto pare, è inscritta nel nostro patrimonio genetico. In alcuni momenti, la poesia mi è sembrata più idonea della prosa per trasmettere un’idea o un’immagine."

 

Essendo anche egli un uomo, ha ceduto alla spinta della poesia di scrivere versi, ma questo impulso non si manifesta in momenti precisi, ma “ad ora incerta”, come quell’agonia di cui parla Coleridge ne La ballata del vecchio marinaio che si manifesta occasionalmente e che non scompare fino a quando non viene raccontata la sua storia.

 

L’autore aggiunge anche che la poesia è qualcosa di innato, che non possiamo scindere da noi, perché si trova nel nostro DNA. Levi ha ritenuto più idonea la poesia rispetto alla prosa, perché essa riesce ad esprimere meglio ciò che l’autore sente dentro.

 

Ecco il caso Levi sembra chiaro all’argomento: un giovane ebreo italiano, di buona famiglia borghese e di cultura medio-alta, con una laurea in chimica, viene deportato ad Auschwitz. Sopravvive miracolosamente e, tornato nella sua Torino, rende conto di quella esperienza (E. Ferrero, 1997). 

 

All’indomani della Shoah, la necessità di scrivere e di raccontare ciò che aveva visto e vissuto si faceva sentire in maniera prepotente in Levi. Una necessità problematica quella dell’autore, che si ritrova di fronte alla difficile questione di adeguare ai modelli letterari già presenti la sua verità; verità che, fortunatamente, non aveva ancora avuto un riscontro nei fenomeni storici già vissuti. Levi era consapevole delle difficoltà che avrebbe riscontrato nello scrivere di una materia così complessa e recente, ma la necessità e l’urgenza di testimoniare erano ben più forti di qualsiasi altra cosa. Fu proprio così che, tornato dal Lager, Levi stesso afferma di aver iniziato a scrivere “senza piano, senza preoccupazione di stile, dando la precedenza agli episodi che avevo più freschi nella memoria”. Probabilmente il suo primo intento non era quello di creare un’opera letteraria. A spingerlo era l’urgenza di trascrivere ciò che per lui era importante e significativo.

 

L’esordio di Primo Levi come scrittore si può dire quindi contrassegnato dall’esigenza di testimoniare il Lager. Occasionalità e casualità sono i due concetti che prevalgono in questo primo periodo. Un fatto così malefico come la Shoah genera in lui uno “strano potere di parola” che sottolinea la volontà di esorcizzare questo ‘satana’ che perseguita il protagonista. Scrivere diventa così una necessità, ma anche un atto di coraggio, mediazione e testimonianza.

 

Nasce in Levi l’idea della letteratura come dovere. Dovere verso se stesso e verso i compagni morti durante il periodo di prigionia. Dovere di raccontare, di comunicare al lettore la sua esperienza orribile e infettiva. Così comunicare diventa un termine chiave nell’opera leviana (non a caso è anche il titolo dell’ultimo capitolo de I sommersi e i salvati).

 

La letteratura è una modalità di comunicazione e la comunicazione in letteratura diventa una modalità con cui porre ordine al caos, al disordine della vita. “Raccontare è una medicina sicura” afferma l’autore in Lilìt e altri racconti (1981), è un modo per esprimere la propria visione del mondo, un tentativo di creare un mondo coerente e organizzato a partire da materiale che di coerente, in realtà, ha poco o nulla.

 

In una prima fase quindi la letteratura assume un certo valore terapeutico per Primo Levi. Essa soddisfa il suo bisogno di sfogarsi, ma soprattutto lo aiuta a riconquistare quella dignità sociale e intellettuale che l’autore si sentiva di aver perso nei campi di concentramento.

“Scrivere ebbe sempre in Levi un valore altamente redentore, etico e vitale: significava tornare fra i vivi, reintegrare l’universo della Ragione e del Logos che riordina il Caos e si contrappone alla follia, all’orrore concentrazionario. Scrivere offriva all’ex-174517 la possibilità di cancellare l’offesa di Auschwitz, di ritrovare un posto in una collettività nella quale si sentiva responsabile di testimoniare l’esperienza vissuta da lui a dai suoi compagni annientati" (Nezri-Dufour, 1999).

 

Se in un primo momento la scrittura è un mezzo introspettivo e di recupero della dimensione umana, in un secondo momento si carica di altre valenze e diventa una forma di interpretazione del mondo, una chiave per intendere le contraddizioni della vita. Levi tenta di dare ordine al caos che ha governato la sua esperienza, ma si rende conto che al caos non si può porre ordine una volta per tutte poiché nulla è per sempre. Il rischio di disperazione esiste; non ci si può sentire protetti eternamente. Proprio per questo motivo, come per una sorta di meccanismo di autodifesa, Primo Levi prende distanza da ogni forma di eccesso, diventando un esempio di mentalità logica, razionale e laica. La morale della sua scrittura sta nell’invito a utilizzare la logica e a tenere sempre viva la ragione che ci guida. Diventa quindi inutile compiangere la miseria della vita; doveroso, invece, tentare di migliorarla.

 

Questa seconda fase, che possiamo definire conoscitiva, porta l’autore a provare “un piacere diverso, intenso e nuovo” accanto al sollievo liberatorio iniziale; un piacere “simile a quello provato da studente nel calcolo differenziale”. Dopo aver provato una sorta di liberazione nel raccontare la sua vicenda personale, Levi si concentra quindi sugli aspetti linguistici da vero scrittore. Creare la parola giusta e commisurata, breve e forte, evitare parole inutili ed eccessive, descrivere le cose con il massimo rigore e con il minimo ingombro diventano attività che egli compie con grande attenzione ed esattezza:

 

“lo stesso mio scrivere diventò un’avventura diversa, non più l’itinerario doloroso di un convalescente, non più un mendicare compassione e visi amici, ma un costruire lucido, ormai non più solitario: un’opera di chimico che pesa e divide, misura e giudica su prove certe, e s’industria a rispondere ai perché”.

 

Non solo un autore di testimonianza dunque, ma un vero e proprio scrittore che trae sì ispirazione dalla sua esperienza di vita, ma che, molto probabilmente, avrebbe iniziato la sua attività di scrittore nonostante l’evento concentrazionario, per pura e semplice vocazione. Prima ancora di vivere la tragica esperienza nel Lager e di scrivere la sua opera più conosciuta, Se questo è un uomo, Primo Levi aveva composto versi: un “impegno” poetico, che durerà quasi quarant’anni, che incominciò con la poesia Crescenzago (febbraio 1943) fino ad accompagnarlo nei suoi ultimi anni di vita. Ad ora incerta così nasce dall’impulso di Primo Levi di scrivere poesia, un impulso irrazionale controllato dal bisogno dell’autore di raccontare temi a lui cari, come la sofferenza interiore. Queste sue angosce sono espresse attraverso i sentimenti e le immagini che solo la poesia sa creare. 

 

Per tornare alla mia domanda iniziale: sì, la letteratura continuerà ad essere  un processo utile al necessario, finché ci saranno persone capaci di osservare la realtà con nutrienti letture rendendola utile al necessario: a volte bella, a volte irritante. E finché sarà un processo intrinseco e necessario a una condizione molto interessante, che è quella umana.